"È sbagliato giudicare un uomo dalle persone che frequenta. Giuda, per esempio, aveva degli amici irreprensibili."

( Ernest Hemingway)

martedì 5 febbraio 2013

Ritorno al paese...




La corriera fortunatamente giunse puntuale, così cominciò il mio disperato viaggio verso casa, tre ore di curve terribili e sensazioni sgradevoli. Durante il tragitto persi immediatamente interesse per il paesaggio, perché mi trovavo imprigionato in uno spazio di ridotte dimensioni, con schiena e testa compressi su un pezzo di plastica duro, mobilità ridotta ai minimi termini e col freddo che mi aggrediva ogni centimetro quadrato di pelle. Spifferi d’aria gelata concludevano la loro corsa proprio sulla base del collo, ed ero obbligato a coprirmi come se mi trovassi all’interno di un congelatore.


Durante tutto il tempo di curve e controcurve riflettevo su quanto avrei finalmente ritrovato. Avevo vissuto intensamente le prime settimane in città, e non avevo avuto né il tempo né l’intenzione d’approfondire le mie impressioni. Di tanto in tanto telefonavo agli amici che frequentavano ancora le superiori, e loro mi raccontavano i consueti stralci di vita paesana. Ogni volta simulavo una vaga sorpresa nell’apprendere le diavolerie dei personaggi che bazzicavano in paese, da anni puntualmente le stesse. L’ape sfondata di “goppai” Ernesto e la minigonna di Assunta la cosciona, la rissa furiosa al bar del vecchio e Franco Zuddas che rovesciava i tori afferrandoli per le corna, Olindo l’ubriacone salvato dalle punture della dottoressa ed il Mitra che si cagava addosso. Tuttavia, e nonostante questi racconti sospesi tra fantasia e demenza, provavo nostalgia per il mio piccolo paese, come si sente la mancanza di un amico stupido di cui, dopo la morte, rimpiangiamo la totale idiozia. Non sapevo riconoscere le ragioni di quel sentimento; non avevo una chiara consapevolezza per cui potevo dire: “ecco, è questo a mancarmi!”. In realtà si trattava di un insieme di presentimenti e ricordi, amalgamati nella coscienza come piombo fuso colato in un immenso calderone.

Certo... Provavo senz’altro nostalgia per alcune atmosfere, che si creavano soltanto in precisi periodi dell’anno. Attraversavamo l’ultima decade di Ottobre, settimane in cui gli impegni scolastici non erano assillanti, consentendoci una pacifico soggiorno nelle comode stanze dell’ozio. Un pomeriggio poteva così trascorrere nella lentezza più assoluta, non avevamo affanni o timori che contaminavano la nostra serenità. Ci incontravamo immediatamente dopo pranzo, ed andavamo nel bosco a trascorrere il tempo con l’amichevole compagnia di una birra scadente, che tuttavia aveva il buon sapore della libertà. Nella strada del paese e nei bar s’intrattenevano costantemente numerose persone, individui che conoscevi e che ti conoscevano alla perfezione, personaggi immutabili come i monti che svettavano sul paese, uomini e donne che non si smentivano mai. Potevi imbatterti nell’inflessibile maestro delle elementari o nella tua devota catechista, nel dirigente della squadra di calcio puntualmente ubriaco, nel cugino pastore che insisteva per invitarti una “tazza” di vino, nella ragazza che avevi segretamente amato ai tempi delle elementari e nei soliti bulli, che architettavamo con precisione maniacale torture fisiche e psichiche per i disgraziati della scuola...

Mentre riflettevo su queste ed altre circostanze mi trovai dinanzi alle “mie” colline. Una lieve sensazione di malessere, una sorta di morsa allo stomaco, voleva suggerirmi quanto già sapevo. Ripensandoci attentamente, potevo considerare quell’esercito di sensazioni come qualcosa che rasentava l’idea di “felicità”, se di felicità in questa vita possiamo parlare. Ero infatti eccitato nel riscoprire quelle alte abitazioni e le strette stradine, che si dipanavano all’interno della valle come sinuosi serpenti di pietra. Quando poi la corriera oltrepassò le prime case periferiche, come un bambino posai le mani sul finestrino, per osservare le strutture che mi scorrevano dinanzi come immagini di un film muto. Nulla ovviamente era stato ancora modificato, ma osservavo ogni elemento con autentico interesse, come un turista capitato per caso tra quei boscosi pendii dimenticati. La Chiesa, la grande piazza in cui erano festeggiate le ricorrenze civili e religiose, il tetro bar di zio Alfonso, con le immancabili statue viventi poste a presidio del suo ingresso, il giardino spelacchiato ed il malinconico portico, in cui innumerevoli volte avevamo tentato di nasconderci dai rispettivi genitori, che in realtà non cercavano noi ma esorcizzavano i fantasmi propinati dai telegiornali di turno...

Scesi così alla fermata scortato da una piacevole nostalgia, ma ben contento di ritrovarmi sulla stessa strada percorsa centinaia di volte, in compagnia dei soliti amici oppure in completa solitudine. In quei pochi metri che mi separavano da casa camminai assorto, immerso nei ricordi che stimolavano i neuroni indolenziti dalla caotica esistenza urbana. Conoscevo ogni luogo alla perfezione, non c’era un centimetro quadrato che non risvegliasse in me memorie che il tempo non poteva cancellare, perché scolpiti su una materia assai più potente di qualsiasi marmo esistente.

Quando giunsi dinanzi al portone bussai ed attesi l’arrivo di mia madre, perché raramente mio padre adempiva a simili incombenze. Erano trascorsi appena due mesi, ma sembravano trascorsi secoli. Quando mia madre comparve dinanzi al portone ci guardammo sorridendo, e ci salutammo con un abbraccio. Mio padre emerse dalle sue pratiche per stringermi la mano, e domandarmi se Cagliari era ancora la stessa città che aveva conosciuto. Per qualche minuto risposi alle loro domande delineando la mia nuova esistenza, poi corsi in camera per sdraiarmi sul letto, fissando lo stesso soffitto con cui avevo familiarizzato sin da quando ero bambino.

Brano tratto da "Valeria e le cattive compagnie" di Vincenzo M. D'Ascanio.