La
corriera fortunatamente giunse puntuale, così cominciò il mio disperato viaggio
verso casa, tre ore di curve terribili e sensazioni sgradevoli. Durante il
tragitto persi immediatamente interesse per il paesaggio, perché mi trovavo
imprigionato in uno spazio di ridotte dimensioni, con schiena e testa compressi
su un pezzo di plastica duro, mobilità ridotta ai minimi termini e col freddo
che mi aggrediva ogni centimetro quadrato di pelle. Spifferi d’aria gelata
concludevano la loro corsa proprio sulla base del collo, ed ero obbligato a
coprirmi come se mi trovassi all’interno di un congelatore.
Durante tutto il
tempo di curve e controcurve riflettevo su quanto avrei finalmente ritrovato.
Avevo vissuto intensamente le prime settimane in città, e non avevo avuto né il
tempo né l’intenzione d’approfondire le mie impressioni. Di tanto in tanto telefonavo
agli amici che frequentavano ancora le superiori, e loro mi raccontavano i
consueti stralci di vita paesana. Ogni volta simulavo una vaga sorpresa
nell’apprendere le diavolerie dei personaggi che bazzicavano in paese, da anni
puntualmente le stesse. L’ape sfondata di “goppai” Ernesto e la minigonna di
Assunta la cosciona, la rissa furiosa al bar del vecchio e Franco Zuddas che
rovesciava i tori afferrandoli per le corna, Olindo l’ubriacone salvato dalle
punture della dottoressa ed il Mitra che si cagava addosso. Tuttavia, e
nonostante questi racconti sospesi tra fantasia e demenza, provavo nostalgia
per il mio piccolo paese, come si sente la mancanza di un amico stupido di cui,
dopo la morte, rimpiangiamo la totale idiozia. Non sapevo riconoscere le ragioni
di quel sentimento; non avevo una chiara consapevolezza per cui potevo dire:
“ecco, è questo a mancarmi!”. In realtà si trattava di un insieme di
presentimenti e ricordi, amalgamati nella coscienza come piombo fuso colato in
un immenso calderone.
Certo... Provavo
senz’altro nostalgia per alcune atmosfere, che si creavano soltanto in precisi
periodi dell’anno. Attraversavamo l’ultima decade di Ottobre, settimane in cui
gli impegni scolastici non erano assillanti, consentendoci una pacifico
soggiorno nelle comode stanze dell’ozio. Un pomeriggio poteva così trascorrere
nella lentezza più assoluta, non avevamo affanni o timori che contaminavano la
nostra serenità. Ci incontravamo immediatamente dopo pranzo, ed andavamo nel
bosco a trascorrere il tempo con l’amichevole compagnia di una birra scadente,
che tuttavia aveva il buon sapore della libertà. Nella strada del paese e nei
bar s’intrattenevano costantemente numerose persone, individui che conoscevi e
che ti conoscevano alla perfezione, personaggi immutabili come i monti che
svettavano sul paese, uomini e donne che non si smentivano mai. Potevi
imbatterti nell’inflessibile maestro delle elementari o nella tua devota
catechista, nel dirigente della squadra di calcio puntualmente ubriaco, nel
cugino pastore che insisteva per invitarti una “tazza” di vino, nella ragazza
che avevi segretamente amato ai tempi delle elementari e nei soliti bulli, che
architettavamo con precisione maniacale torture fisiche e psichiche per i
disgraziati della scuola...
Mentre riflettevo
su queste ed altre circostanze mi trovai dinanzi alle “mie” colline. Una lieve
sensazione di malessere, una sorta di morsa allo stomaco, voleva suggerirmi
quanto già sapevo. Ripensandoci attentamente, potevo considerare quell’esercito
di sensazioni come qualcosa che rasentava l’idea di “felicità”, se di felicità
in questa vita possiamo parlare. Ero infatti eccitato nel riscoprire quelle
alte abitazioni e le strette stradine, che si dipanavano all’interno della
valle come sinuosi serpenti di pietra. Quando poi la corriera oltrepassò le
prime case periferiche, come un bambino posai le mani sul finestrino, per
osservare le strutture che mi scorrevano dinanzi come immagini di un film muto.
Nulla ovviamente era stato ancora modificato, ma osservavo ogni elemento con
autentico interesse, come un turista capitato per caso tra quei boscosi pendii
dimenticati. La Chiesa, la grande piazza in cui erano festeggiate le ricorrenze
civili e religiose, il tetro bar di zio
Alfonso, con le
immancabili statue viventi poste a presidio del suo ingresso, il giardino
spelacchiato ed il malinconico portico, in cui innumerevoli volte avevamo
tentato di nasconderci dai rispettivi genitori, che in realtà non cercavano noi
ma esorcizzavano i fantasmi propinati dai telegiornali di turno...
Scesi così alla
fermata scortato da una piacevole nostalgia, ma ben contento di ritrovarmi
sulla stessa strada percorsa centinaia di volte, in compagnia dei soliti amici
oppure in completa solitudine. In quei pochi metri che mi separavano da casa camminai
assorto, immerso nei ricordi che stimolavano i neuroni indolenziti dalla
caotica esistenza urbana. Conoscevo ogni luogo alla perfezione, non c’era un
centimetro quadrato che non risvegliasse in me memorie che il tempo non poteva
cancellare, perché scolpiti su una materia assai più potente di qualsiasi marmo
esistente.
Quando giunsi
dinanzi al portone bussai ed attesi l’arrivo di mia madre, perché raramente mio
padre adempiva a simili incombenze. Erano trascorsi appena due mesi, ma
sembravano trascorsi secoli. Quando mia madre comparve dinanzi al portone ci
guardammo sorridendo, e ci salutammo con un abbraccio. Mio padre emerse dalle
sue pratiche per stringermi la mano, e domandarmi se Cagliari era ancora la
stessa città che aveva conosciuto. Per qualche minuto risposi alle loro domande
delineando la mia nuova esistenza, poi corsi in camera per sdraiarmi sul letto, fissando lo stesso
soffitto con cui avevo familiarizzato sin da quando ero bambino.
Brano tratto da "Valeria e le cattive compagnie" di Vincenzo M. D'Ascanio.
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