“Ricordo quel pomeriggio come se
ricordassi un incubo, ma le cicatrici mi suggeriscono che un incubo non è
stato... Quelle ore non furono semplicemente dure, quelle ore furono
terrificanti. I tafferugli cominciarono la mattina, tra le nove e le dieci,
proseguendo sino a sera e per tutta la notte. I Blak Block si muovevano con
strategia militare, distruggevano cassonetti, vetrine, automobili, ed alcuni
compagni perdevano la testa in un insensato spirito d’emulazione. C’era del
sangue dappertutto, sangue sulla strada, sui vestiti, c’era sangue addirittura
sulle transenne. Elisabetta, del Social Forum, ci disse che quella notte avremo
dormito in un edificio messo a disposizione dall’organizzazione. Si trattava
della scuola Diaz, luogo divenuto monumento nazionale all’abuso di potere...
Eravamo stremati, avevamo prima camminato e poi corso per sfuggire ai
disordini. Anche le forze dell’ordine avevano perso il controllo e nelle strade
imperversava la guerriglia urbana: la zona rossa s’era trasformata
nell’epicentro di una rivoluzione urbana senza scopo.
Di sera, invece, c’era una calma surreale,
ed il peggio sembrava trascorso. Eravamo tutti più o meno sconvolti, nel gruppo
c’erano ragazzi e ragazze con sangue pesto tra i capelli, sulle ginocchia,
soprattutto sulle magliette. Eravamo consapevoli di trovarci finalmente al
sicuro, lontani da quei fanatici, dai loro manganelli, dai loro stivali e dai
loro lacrimogeni... S’eri stato fortunato ti avevano assestato una manganellata
a caso, per poi correre ciecamente verso altre persone; se non lo eri ti
avevano circondato in due oppure in tre, ti avevano costretto a terra e dato
calci allo stomaco, sul viso, dove capitava. In quella situazione era
fondamentale non cadere, perché poi era impossibile rialzarsi con le proprie
gambe. Abbiamo salvato per miracolo un compagno di Padova: noi fortunatamente
eravamo una decina, mentre i celerini erano soltanto in tre. Glielo abbiamo
strappato dalle mani mentre lo scaraventavano sull’asfalto, ma hanno avuto il
tempo per rompergli lo zigomo e spaccargli un sopracciglio. Con noi c’era Marco
Contin, un medico di Chivasso, con dei bendaggi nella borsa medica. Carla, la
mia amica, non appena ha visto il ragazzo è svenuta... Povera Carla, ha sempre
avuto la fobia del sangue, e di sangue il compagno ne aveva dappertutto...
Nell’edificio ci sentivamo più tranquilli,
ero in compagnia di alcune compagne del milanese, avvolta in una coperta
prestatami da un fotografo campano. Era Luglio, faceva caldo, ma sentivo
correre di brividi lungo la schiena, forse a causa della tensione a cui erano
stati costretti i nervi. Il gruppo era formato da sette ragazze, qualcuna aveva
dei lividi, una ragazza di Brescia mostrava un canino rotto con allegria, come
se stesse mostrando un trofeo. Eravamo abbastanza stanche, qualcuna si
addormentò sugli zaini o sui vestiti. Nonostante la spossatezza provai a
restare sveglia, non so, provavo una seccante inquietudine. Le tempie
continuavano a tamburellare, davanti agli occhi avevo ancora tutta quella
confusione, quella violenza, quel sangue. Non so se mi addormentai o meno, ma
improvvisamente sentii sul fianco le mani di Caterina, ed un frastuono
insopportabile provenire dal corridoio.
“Patrizia, Patrizia, svegliati, sono
qui... Dobbiamo scappare!”
“Come... Sono qui... Chi?” Mi sollevai col
batticuore ed inconsapevole, ma realizzai rapidamente, comprendendo d’essere
ripiombata nello stesso incubo del pomeriggio. In qualche modo cercai di
recuperare lo zaino, ma un ragazzo cadde su di me colpendomi il viso con una
ginocchiata, e crollai sul pavimento quasi svenuta. Riuscì a risollevarmi con
le braccia, e vidi le gocce di sangue sporcare le mattonelle bianche: l’impatto
mi aveva fratturato il setto nasale. Non riuscivo a vedere nulla, quel ragazzo
era scappato dopo aver strascicato delle scuse affrettate. Per fortuna Caterina
riuscì a trascinarmi per un braccio.
Facendoci largo nella confusione riuscimmo
ad uscire dallo stanzone, ma in quella zona erano già arrivati i celerini che
avevano fatto inginocchiare i compagni. Quindi andammo nella direzione opposta,
ma quando entrammo nel corridoio principale dinanzi a noi si presentò una scena
surreale. I poliziotti erano appoggiati alle pareti del corridoio, e quando i
ragazzi vi passavano li riempivano di calci, pugni e manganellate. Erano senza
dubbio ubriachi o drogati, infatti ostentavano una condotta inutilmente
violenta verso persone inoffensive, che non azzardavano neanche un minimo
tentativo di reazione. Indossavano sempre la maschera antigas, anche se di gas
non ce n’era... Ovviamente non volevano farsi riconoscere, perché sapevano che
stavano compiendo dei crimini.
Per la prima volta, nella mia vita, provai
terrore. Avevo già sperimentato altre forme di paura ma quella notte, per la
prima volta provai “puro” terrore, che oltrepassa di gran lunga il limite della
semplice paura. Ho forse capito cosa provarono gli internati dei campi di
concentramento, o quanti furono torturati dai regimi totalitari argentini,
greci, tedeschi o sovietici. Lo Stato, l’ente giuridico che trova nella
sicurezza dei cittadini una delle sue basi, si trasforma inspiegabilmente in
carnefice, attenta egli stesso alle libertà, all’incolumità ed alla vita di
quelle persone che invece dovrebbe proteggere. Quei poliziotti incarnavano lo
Stato, erano essi stessi lo Stato, uno Stato con gli stivali, maschera antigas
e manganello, tramutatosi in boia di ragazzi e ragazze a cui non poteva essere
imputato alcune reato, nulla, che potesse giustificare una pena.
Dopo averci minacciato più volte di
violenza sessuale, fummo trascinate all’interno di un cellulare, dove ci
attendevano una decina di ragazzi nella nostra situazione. Due celerini in
tenuta antisommossa ci sorvegliavano, mentre il mezzo correva a folle velocità
tra le strette strade di Genova. Uno di quei poliziotti osservava stupito il
mio naso, di certo non era stato coinvolto e si poneva delle domande. Aveva
un’espressione sconvolta, e dopo qualche istante non fu più in grado di
sostenere il mio sguardo. Chissà, forse accadevano le medesime dinamiche,
quando i tedeschi “perbene” incrociavano lo sguardo degli ebrei... Chi ci
avesse visto avrebbe provato una grande pena, se non fosse stato preda
d’alcool, droga o stupida esaltazione dettata dal barbaro potere di procurare
dolore. Una ragazzina intanto piangeva, bisbigliava, era nuovamente bambina,
nonostante il tono sommesso la sentivo invocare la madre, come se avesse paura
del buio, o fosse spaventata da un brutto sogno... Ma come hanno potuto?
Da poco ho letto il libro di Primo Levi, “Se
questo è un uomo”. Una compagna, anche lei “reduce” della Diaz, me l’ha
regalato con un malinconico sorriso sulle labbra. “Leggilo, forse ti aiuterà a
spiegarti alcune cose...” E’ difficile esprimere cosa provai durante la
lettura, ogni pagina è la fedele rappresentazione della ferocia umana. La
compagna tuttavia sapeva, perché anch’io provai quelle sensazioni, nonostante
le esperienze fossero diverse... Un passaggio mi ha nauseato più degli altri,
parole su cui rifletto quando ricordo quei giorni. Primo Levi domanda al
lettore come può un uomo colpire un altro uomo senza provare odio o rancore nei
suoi confronti. Schiaffeggiarlo, umiliarlo, colpirlo sul viso, nei casi limite
massacrarlo, senza provare nessun risentimento, perché ha ricevuto un ordine.
Anch’io mi pongo questa domanda, ma non trovo risposte, ed altre domande
restano senza risposte, risposte che probabilmente non arriveranno mai. Qual è
stato il vero motivo di quella violenza? Quali ordini sono stati impartiti?
Quali strategie si nascondono nei fatti di Genova? Non individuo una logica,
cerco e ricerco una risposta negli angoli della mia mente, la inseguo durante
il giorno ma soprattutto la notte, quando nel silenzio tutto riaccade,
implacabile e freddo come allora. Cerco risposte naufragate in un mare di
timori, e sino a quando non le darò almeno a me stessa quei poliziotti, il
corpo di Carlo, i visi insanguinati continueranno a perseguitarmi, come siamo
stati perseguitati noi, in quei giorni di Genova”.
Brano tratto dal libro
"Valeria e le cattive compagnie" di Vincenzo M. D'Ascanio..