"È sbagliato giudicare un uomo dalle persone che frequenta. Giuda, per esempio, aveva degli amici irreprensibili."

( Ernest Hemingway)

giovedì 28 marzo 2013

Azuz!





Prima di diventare pastore, e prima ancora di giungere in Sardegna, Azuz era stato un mercenario al servizio di re, imperatori e governi fantoccio insediati dalle potenze europee ed americane. Aveva combattuto nelle guerre per i giacimenti di diamanti, era stato assoldato da società petrolifere per soffocare le rivolte nella Nigeria settentrionale, aveva combattuto anche per i ribelli talebani, durante i cruenti scontri somali. Queste circostanze, tuttavia, non devono provocare la vostra indignazione, perché Azuz più che carnefice è stato vittima, anche se può sembrarvi strano. Quando aveva cinque anni il suo villaggio fu raso al suolo dal capitano Mukaba, spietato soldato di ventura al servizio delle multinazionali occidentali. I membri della sua famiglia furono trucidati e Mukaba lo prese con sé non per compassione, ma con l’infame intento di farlo diventare un guerrigliero feroce, una macchina da guerra pronto ad eseguire ogni suo ordine. Azuz fu duramente addestrato e poi mandato a combattere: sul campo di battaglia si macchiò di numerosi delitti come gli avevano insegnato i suoi cattivi maestri. Dopo anni di stermini, saccheggi, violenze e distruzione la sua mente cominciò a vacillare, voci convulse e frenetiche avvelenavano la sua coscienza, urla che pretendevano insistentemente vendetta per le vittime che lui stesso aveva causato. Azuz voleva liberarsi di quei demoni che gli rendevano la vita insopportabile, per questo raggiunse il villaggio di Ra’s, in cui praticava uno stregone celebre in tutta la regione per i suoi esorcismi. Le parole dello sciamano furono lapidarie, e senza possibilità di replica. Se desiderava liberarsi dalle voci Azuz doveva eseguire il loro comando: ammazzare il capitano Mukaba.

Durante una notte calda ed umida, in cui non soffiava il vento e gli uccelli notturni attendevano in un surreale silenzio, Azuz s’alzò dal letto per dirigersi verso la capanna del capitano. Tra le mani stringeva un affilato macete, lo stesso che aveva più volte utilizzato per ferire, decapitare, mutilare. Il passo di Azuz era rapido e deciso, mentre gli spiriti gli urlavano insistentemente di sbrigarsi. Una volta giunto dinanzi alla tenda recise con cura il tessuto, quindi oltrepassò lo squarcio e s’avventò deciso sul corpo del capitano. Dopo una breve colluttazione gli mozzò la testa con un secco fendente, e questa rotolò sul pavimento come una zucca scivolata dalle mani di un bambino. In quel momento le voci si placarono, ed i demoni abbandonarono la sua anima mentre la morte stendeva il mantello sulla salma del capitano. Azuz s’alzò dal corpo esanime e respirò profondamente. Finalmente era libero...

Soltanto allora il silenzio che dominava la notte lo sorprese per la sua profondità. Decise d’andarsene portando con sé alcune armi del comandante, ma mentre oltrepassava l’apertura vide due diamanti risplendere nell’oscurità. Due diamanti che ardevano come il fuoco, due diamanti che avevano i lineamenti di occhi impauriti, ma pur sempre carichi di odio estremo. Quella notte Mukaba non era solo, poiché una donna della tribù Kavaswy aveva riposato al suo fianco. “La donna di un carnefice deve essere uccisa!” Azuz avanzò di un passo, con la mano sinistra le afferrò i capelli ed alzò il macete con la destra, pronto a tranciarle la testa, pronto a regalarle l’identico destino del suo sanguinario amante. Una sensazione opprimente tuttavia lo colse, un’intuizione dell’anima che s’insinuò in ogni singola cellula del suo organismo. Azuz era irrimediabilmente stanco del sangue, troppi occhi s’erano spenti per sempre dinanzi ai suoi. Lasciò andare la presa, per l’ultima volta affondò il suo sguardo in quelli della donna tremante, quindi fece cadere il macete ancora macchiato di sangue. S’allontanò con l’agilità d’una gazzella, per essere inghiottito dalla medesima oscurità che l’aveva partorito. Mentre affondava nel fango udì le urla della donna lacerare la notte, vide il bagliore dei fari perforare il buio ed ombre correre verso la tenda del capitano. Poi udì gli spari, ancora altre urla, cani rabbiosi che ringhiavano, uomini agitarsi forsennatamente. Tutto ciò non lo preoccupava, perché si trovava già nella palude, dove nessuno poteva catturarlo, dove nessun segugio poteva fiutarne l’odore.

Azuz sapeva che doveva fuggire, perché se gli uomini di Mukaba l’avessero preso prima l’avrebbero torturato, e soltanto dopo inauditi tormenti gli avrebbero concesso la morte. Poteva contare su molteplici possibilità che gli scorrevano dinanzi come acque di un torrente, scorrere d’immagini che proseguì sino a quando la mattina non vide un’immensa fila di persone. Azuz s’avvicinò, e scoprì che quella processione era diretta verso il porto di Adith, dove una nave attendeva di salpare alla volta dell’Europa. Doveva scappare il più presto possibile, ed il miglior modo per farlo accodarsi a quel cordone umano, a quella surreale processione di membra ed acciaio. Senza porsi ulteriori domande si unì alla carovana, e dopo aver percorso centinaia di chilometri arrivarono dinanzi alle acque del Mediterraneo. Soltanto al porto seppe che per imbarcarsi occorreva molto denaro, ma per lui non era un problema. Ad Adith si sarebbe procurato facilmente il necessario; si trattava di un porto affollato e non avrebbe avuto difficoltà ad avere ragione su qualche distratto turista europeo, incautamente incappato in uno dei cupi vicoli del rione portuario. Avrebbe ottenuto il necessario senza uccidere, ma l’avrebbe fatto, se questo era il prezzo della libertà. Azuz tuttavia non conosceva l’effettivo valore della libertà, sino a quando non vide la nave che l’avrebbe portato nei “sicuri” porti europei. Si trattava di un rottame scassato ed arrugginito, adatto soltanto ad adagiarsi sui fondali marini. Per giunta traboccava di persone da poppa a prua, qualcuno era precariamente aggrappato alle balaustre, mentre altri disperati continuavano a salire come anime pronte a varcare la soglia dell’Inferno. Non c’era spazio nemmeno per respirare, ed il sole picchiava sulle teste di uomini, donne e bambini, educati alla sofferenza nei visi scolpiti dal dolore.

I barili dell’acqua potabile furono presto esauriti, ma quando tutto pareva perduto un dio annoiato concesse la pioggia. Alla pioggia tuttavia seguì la tempesta, in cui le onde avanzavano come mura in cemento pronte a flagellare quello scherno d’imbarcazione. Durante la bufera molte persone furono inghiottite dal mare, altri persero la vita dopo essere stati scaraventati sulle balaustre, altri ancora morirono mentre cercavano di salvare i loro bambini o le loro mogli. La bagnarola tuttavia non affondò e rimase miracolosamente a galla, ciondolante come un gigantesco tappo di sughero. Azuz aveva avvertito la morte molto vicina ma non soffriva, perché nel campo di battaglia era stato abituato a fare i conti col pericolo, e grazie alla follia di Mukaba aveva già perso le persone da piangere. Quando vide un bambino che l’osservava tra le braccia della madre morta, però, un’emozione aggressiva gli straziò il cuore, una sensazione a cui era ormai disabituato, ma che subito allontanò con la sua consueta durezza. Mentre la Guardia di Finanza li scortava nel porto di Lampedusa, cercò quello stesso bambino tra i naufraghi ma non lo vide. Era probabilmente morto per via degli stenti, o forse era riuscito a sopravvivere, deciso ad affrontare la sua odissea come l’ex mercenario era pronto ad affrontare la sua.

Dopo alcuni giorni trascorsi sulle banchine di Lampedusa, fu spedito a Cagliari come un pacco postale, dove fu miracolosamente inserito in un programma per rifugiati politici voluto delle Nazioni Unite. In una ex colonia penale apprese il mestiere del pastore, e grazie allo stesso programma trovò lavoro presso Antioco Demuro, un pastore del mio paese. Ora il nostro amico passeggia tranquillamente tra i monti, ascolta il sibilo del vento, dialoga assiduamente con gli spiriti e ripensa alla terra in cui non può tornare. Azuz suo malgrado sarà uno dei principali protagonisti della mia vicenda, una vicenda amara come un caffè rancido bevuto di primo mattino, e purtroppo i miei errori coinvolgeranno irrimediabilmente anche lui.

Brano tratto dal libro "Valeria e le cattive compagnie" di Vincenzo M. D'Ascanio.

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