"È sbagliato giudicare un uomo dalle persone che frequenta. Giuda, per esempio, aveva degli amici irreprensibili."

( Ernest Hemingway)

giovedì 28 marzo 2013

Incubo genovese




“Ricordo quel pomeriggio come se ricordassi un incubo, ma le cicatrici mi suggeriscono che un incubo non è stato... Quelle ore non furono semplicemente dure, quelle ore furono terrificanti. I tafferugli cominciarono la mattina, tra le nove e le dieci, proseguendo sino a sera e per tutta la notte. I Blak Block si muovevano con strategia militare, distruggevano cassonetti, vetrine, automobili, ed alcuni compagni perdevano la testa in un insensato spirito d’emulazione. C’era del sangue dappertutto, sangue sulla strada, sui vestiti, c’era sangue addirittura sulle transenne. Elisabetta, del Social Forum, ci disse che quella notte avremo dormito in un edificio messo a disposizione dall’organizzazione. Si trattava della scuola Diaz, luogo divenuto monumento nazionale all’abuso di potere... Eravamo stremati, avevamo prima camminato e poi corso per sfuggire ai disordini. Anche le forze dell’ordine avevano perso il controllo e nelle strade imperversava la guerriglia urbana: la zona rossa s’era trasformata nell’epicentro di una rivoluzione urbana senza scopo.

Di sera, invece, c’era una calma surreale, ed il peggio sembrava trascorso. Eravamo tutti più o meno sconvolti, nel gruppo c’erano ragazzi e ragazze con sangue pesto tra i capelli, sulle ginocchia, soprattutto sulle magliette. Eravamo consapevoli di trovarci finalmente al sicuro, lontani da quei fanatici, dai loro manganelli, dai loro stivali e dai loro lacrimogeni... S’eri stato fortunato ti avevano assestato una manganellata a caso, per poi correre ciecamente verso altre persone; se non lo eri ti avevano circondato in due oppure in tre, ti avevano costretto a terra e dato calci allo stomaco, sul viso, dove capitava. In quella situazione era fondamentale non cadere, perché poi era impossibile rialzarsi con le proprie gambe. Abbiamo salvato per miracolo un compagno di Padova: noi fortunatamente eravamo una decina, mentre i celerini erano soltanto in tre. Glielo abbiamo strappato dalle mani mentre lo scaraventavano sull’asfalto, ma hanno avuto il tempo per rompergli lo zigomo e spaccargli un sopracciglio. Con noi c’era Marco Contin, un medico di Chivasso, con dei bendaggi nella borsa medica. Carla, la mia amica, non appena ha visto il ragazzo è svenuta... Povera Carla, ha sempre avuto la fobia del sangue, e di sangue il compagno ne aveva dappertutto...

Nell’edificio ci sentivamo più tranquilli, ero in compagnia di alcune compagne del milanese, avvolta in una coperta prestatami da un fotografo campano. Era Luglio, faceva caldo, ma sentivo correre di brividi lungo la schiena, forse a causa della tensione a cui erano stati costretti i nervi. Il gruppo era formato da sette ragazze, qualcuna aveva dei lividi, una ragazza di Brescia mostrava un canino rotto con allegria, come se stesse mostrando un trofeo. Eravamo abbastanza stanche, qualcuna si addormentò sugli zaini o sui vestiti. Nonostante la spossatezza provai a restare sveglia, non so, provavo una seccante inquietudine. Le tempie continuavano a tamburellare, davanti agli occhi avevo ancora tutta quella confusione, quella violenza, quel sangue. Non so se mi addormentai o meno, ma improvvisamente sentii sul fianco le mani di Caterina, ed un frastuono insopportabile provenire dal corridoio.
“Patrizia, Patrizia, svegliati, sono qui... Dobbiamo scappare!”
“Come... Sono qui... Chi?” Mi sollevai col batticuore ed inconsapevole, ma realizzai rapidamente, comprendendo d’essere ripiombata nello stesso incubo del pomeriggio. In qualche modo cercai di recuperare lo zaino, ma un ragazzo cadde su di me colpendomi il viso con una ginocchiata, e crollai sul pavimento quasi svenuta. Riuscì a risollevarmi con le braccia, e vidi le gocce di sangue sporcare le mattonelle bianche: l’impatto mi aveva fratturato il setto nasale. Non riuscivo a vedere nulla, quel ragazzo era scappato dopo aver strascicato delle scuse affrettate. Per fortuna Caterina riuscì a trascinarmi per un braccio.
Facendoci largo nella confusione riuscimmo ad uscire dallo stanzone, ma in quella zona erano già arrivati i celerini che avevano fatto inginocchiare i compagni. Quindi andammo nella direzione opposta, ma quando entrammo nel corridoio principale dinanzi a noi si presentò una scena surreale. I poliziotti erano appoggiati alle pareti del corridoio, e quando i ragazzi vi passavano li riempivano di calci, pugni e manganellate. Erano senza dubbio ubriachi o drogati, infatti ostentavano una condotta inutilmente violenta verso persone inoffensive, che non azzardavano neanche un minimo tentativo di reazione. Indossavano sempre la maschera antigas, anche se di gas non ce n’era... Ovviamente non volevano farsi riconoscere, perché sapevano che stavano compiendo dei crimini.

Per la prima volta, nella mia vita, provai terrore. Avevo già sperimentato altre forme di paura ma quella notte, per la prima volta provai “puro” terrore, che oltrepassa di gran lunga il limite della semplice paura. Ho forse capito cosa provarono gli internati dei campi di concentramento, o quanti furono torturati dai regimi totalitari argentini, greci, tedeschi o sovietici. Lo Stato, l’ente giuridico che trova nella sicurezza dei cittadini una delle sue basi, si trasforma inspiegabilmente in carnefice, attenta egli stesso alle libertà, all’incolumità ed alla vita di quelle persone che invece dovrebbe proteggere. Quei poliziotti incarnavano lo Stato, erano essi stessi lo Stato, uno Stato con gli stivali, maschera antigas e manganello, tramutatosi in boia di ragazzi e ragazze a cui non poteva essere imputato alcune reato, nulla, che potesse giustificare una pena.
Dopo averci minacciato più volte di violenza sessuale, fummo trascinate all’interno di un cellulare, dove ci attendevano una decina di ragazzi nella nostra situazione. Due celerini in tenuta antisommossa ci sorvegliavano, mentre il mezzo correva a folle velocità tra le strette strade di Genova. Uno di quei poliziotti osservava stupito il mio naso, di certo non era stato coinvolto e si poneva delle domande. Aveva un’espressione sconvolta, e dopo qualche istante non fu più in grado di sostenere il mio sguardo. Chissà, forse accadevano le medesime dinamiche, quando i tedeschi “perbene” incrociavano lo sguardo degli ebrei... Chi ci avesse visto avrebbe provato una grande pena, se non fosse stato preda d’alcool, droga o stupida esaltazione dettata dal barbaro potere di procurare dolore. Una ragazzina intanto piangeva, bisbigliava, era nuovamente bambina, nonostante il tono sommesso la sentivo invocare la madre, come se avesse paura del buio, o fosse spaventata da un brutto sogno... Ma come hanno potuto?

Da poco ho letto il libro di Primo Levi, “Se questo è un uomo”. Una compagna, anche lei “reduce” della Diaz, me l’ha regalato con un malinconico sorriso sulle labbra. “Leggilo, forse ti aiuterà a spiegarti alcune cose...” E’ difficile esprimere cosa provai durante la lettura, ogni pagina è la fedele rappresentazione della ferocia umana. La compagna tuttavia sapeva, perché anch’io provai quelle sensazioni, nonostante le esperienze fossero diverse... Un passaggio mi ha nauseato più degli altri, parole su cui rifletto quando ricordo quei giorni. Primo Levi domanda al lettore come può un uomo colpire un altro uomo senza provare odio o rancore nei suoi confronti. Schiaffeggiarlo, umiliarlo, colpirlo sul viso, nei casi limite massacrarlo, senza provare nessun risentimento, perché ha ricevuto un ordine. Anch’io mi pongo questa domanda, ma non trovo risposte, ed altre domande restano senza risposte, risposte che probabilmente non arriveranno mai. Qual è stato il vero motivo di quella violenza? Quali ordini sono stati impartiti? Quali strategie si nascondono nei fatti di Genova? Non individuo una logica, cerco e ricerco una risposta negli angoli della mia mente, la inseguo durante il giorno ma soprattutto la notte, quando nel silenzio tutto riaccade, implacabile e freddo come allora. Cerco risposte naufragate in un mare di timori, e sino a quando non le darò almeno a me stessa quei poliziotti, il corpo di Carlo, i visi insanguinati continueranno a perseguitarmi, come siamo stati perseguitati noi, in quei giorni di Genova”.

Brano tratto dal libro "Valeria e le cattive compagnie" di Vincenzo M. D'Ascanio..

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